La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, il 14 settembre, pur confermando che il Giudice nella valutazione di quello che è da ritenere quale giusto compenso della retribuzione possa fare riferimento ai CCNL in vigore, sottolinea altresì che, sulla base dell’Art. 36 della Costituzione ( 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantita’ e qualita’ del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa e’ stabilita dalla legge.) possa discostarsi dai valori stabiliti dal CCNL di categoria se a suo parere tali valori in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza richiamati dall’Art. 36 della Costituzione.
Nel prendere atto di quanto statuito dalla Suprema Corte non possiamo però non rilevare come tale sentenza si inserisca in un dibattito sia politico – parlamentare che sindacale estremamente delicato ed che proprio in questi giorni vede da un lato posizioni fortemente divisive anche tra le stesse posizioni delle Organizzazioni Sindacali dei lavoratori sia in Parlamento tra forze di tra maggioranza e di opposizione nonchè una posizione a nostro avviso importante del CNEL, intervenuto proprio su richiesta del Governo sulla questione.
Pubblichiamo QUI IL TESTO DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Sulla sentenza in questione l’avv. Simone Pieragostini ha predisposto una nota di approfondimento che pubblichiamo qui di seguito.
Note di commento alla sentenza 27711/2023 sez. lavoro Corte di Cassazione.
Il caso di specie riguardava il ricorso di un dipendente di una cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 della Costituzione del suo stipendio di vigilante (in un supermercato di una grande catena distributiva) nonostante fosse quello indicato dal Ccnl Servizi Fiduciari.
In primo grado il giudice accoglie l’istanza del ricorrente confermando l’inadeguatezza dell’emolumento.
In secondo grado la Corte d’appello di Torino sulla linea della giurisprudenza consolidata riforma la sentenza affermando che la valutazione di conformità del giudice non poteva applicarsi in presenza di contratti collettivi vigendo il principio della libertà sindacale (art 39, 1° c. Cost).
In particolare, la Corte d’appello sostiene che:
- Vanno esclusi dalla valutazione di conformità ex art 36 Cost quei rapporti di lavoro regolati da un CCNL proprio del relativo settore di operatività e siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.
- Per la Corte d’appello opera in questa materia una presunzione di adeguatezza della retribuzione decisa dal Ccnl ai principi di proporzionalità e sufficienza sanciti dall’art. 36 Cost. Dunque, non è coerente rimettere al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi, al fine di scegliere quello più alto.
LA Corte di Cassazione rigetta questa interpretazione affermando che la nostra Costituzione, all’art. 36, enuclea il principio del salario minimo costituzionale
- Esso è composto di due distinti diritti che si integrano a vicenda: 1) il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e 2) il diritto ad una retribuzione adeguata e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
- Il giudice di merito può sempre valutare se la retribuzione soddisfa questi due principi, anzi gode in questa valutazione di ampi poteri di discrezionalità ex art. 2099 c.c., e può tenere conto, tra gli altri parametri, del livello minimo di povertà Istat, di indicazioni e direttive provenienti dall’ Unione Europea e dell’ordinamento sovranazionale (direttiva UE 2041/2022 sul salario minimo adeguato e giurisprudenza della Corte di giustizie europea, che oltre alle necessità materiali ricomprendono nel salario minimo la necessità di poter partecipare ad attività culturali, educative e sociali.)
- il salario minimo costituzionale delineato dall’art 36 integra un diritto soggettivo perfetto, cioèattribuito in maniera diretta ed incondizionata al soggetto; il suo esercizio è libero, non condizionato ad alcun intervento autorizzatorio della P.A.
- la Corte afferma poi che comunque il giudice deve approcciarsi alla contrattazione collettiva “con grande prudenza e rispetto” perché essa è principio garantito costituzionalmente, ma “…. pur individuando in prima battuta i parametri di una giusta retribuzione nel CCNL il giudice li deve sottoporre a controllo e disapplicarli allorché non li ritenga conformi all’ art. 36 Cost….”
- In questo caso, continua la Corte, non c’è lesione del principio di libertà sindacale perché in materia retributiva deve essere valutata la sussistenza di un principio, ugualmente costituzionale, che prevale: il diritto ad una giusta retribuzione per ogni lavoratore.
- Dunque, anche i salari previsti dalla contrattazione collettiva applicabile al caso di specie posso essere disapplicati dal giudice e il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo che rispetti il minimo salario costituzionale, come enucleato dall’ art. 36 Cost.
In sede di commento si può certamente affermare che la sentenza della suprema Corte presenta certamente aspetti giuridici nuovi e potenzialmente dirompenti per il settore giuslavoristico:
Viene attribuita al giudice di merito la valutazione della conformità della retribuzione ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre l’onere probatorio per il lavoratore viene effettivamente ridotto: “deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità”.
Al lavoratore dunque “spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione”.
È facile obbiettare che seguendo questa interpretazione dell’articolo 36 Cost. vengono meno quelle certezze che sono indispensabili alla conduzione di una qualunque impresa, a partire dal costo del lavoro, il cui ammontare può essere messo in discussione anche quando in materia è stata raggiunta un’intesa nell’ambito della contrattazione collettiva di diritto comune.
Secondo questa interpretazione, se sarà seguita da una crescente giurisprudenza, sarebbero sub judice lo stesso salario minimo stabilito per legge e il contratto collettivo nazionale stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, anche se si trovasse un meccanismo per estenderne erga omnes l’applicazione.
Si può anche prevedere un depotenziamento delle naturali e specifiche funzioni delle organizzazioni sindacali, anche di parte datoriale, e uno svilimento delle relazioni industriali penalizzate dal l rischio di una avvilente smentita in giudizio, su istanza di un solo lavoratore.
Sembra quasi che la decisione giurisprudenziale diventi non soltanto una decisione che sancisce l’applicazione della legge, ma tenda a porre norme di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente..
Avv. Simone Pieragostini
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