
Le proposte federali sul contratto di lavoro presentate alle organizzazioni dei lavoratori, tengono conto non solo della situazione del settore, ma anche del contesto complessivo nel quale la panificazione si trova ad operare, acuendo una situazione di crisi economica complessiva che ha le sue radici negli anni precedenti all’attuale pandemia.
Del resto, che si tratti di crisi vera e profonda e tale da generare effetti potenzialmente devastanti anche in futuro, lo certifica anche il recente rapporto del dell’Istituto Tagliacarne, ( Centro Studi economici delle Camere di commercio), che – congiuntamente a SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) ha analizzato la situazione economico -finanziaria delle imprese italiane e le loro, purtroppo fosche, prospettive.
Le conclusioni del rapporto, anche in prospettiva, sono drammatiche:
prese a campione le imprese manifatturiere e dei servizi tra 5 e 499 addetti l’incidenza a livello nazionale delle imprese fragili raggiunge il 48% , intendendo per fragili quelle più a rischio e prive di strumenti utili ad affrontare il periodo post pandemico, non avendo introdotto innovazioni di prodotto, processo, organizzative, marketing nel triennio 2017-2019 cioè prima della pandemia; non sono esportatrici; e non hanno introdotto innovazioni digitali e/o adottato tecnologie 4.0.
E non vi è dubbio che le nostre hanno purtroppo queste caratteristiche di intrinseca debolezza strutturale non certo facilmente superabili.
Al solito, in questa situazione è il mezzogiorno ad essere maggiormente in sofferenza pesando per il 55%, ma anche le regioni del Centro per quasi il 50%, e, comunque, per il 46% e il 41% rispettivamente nel Nord-Ovest e nel Nord-Est.
Il rapporto continua segnalando come l’insieme di fragilità, che ha indebolito la risposta allo shock da Covid, e delle previsioni sulla mancata ripartenza delle vendite nel 2021, genera un bacino di imprese a forte rischio di espulsione dal mercato: a livello nazionale il 15% pari a 73.200 aziende che avranno forti difficoltà a “resistere” alla selezione operata dal Covid come risultato di una compresenza di fragilità strutturale (assenza di innovazione, di digitalizzazione e di export) e performance economica negativa nel 2021.
Una prima, preoccupante anticipazione che queste pesanti previsioni possano essere purtroppo realistiche arriva dall’analisi dei dati diffusi da Unioncamere/Movimprese che evidenziano chiaramente come nel 2020 le più colpite dalla crisi epidemica siano state, e di gran lunga le piccole imprese (società di persone e ditte individuali): hanno chiuso bottega quasi 220mila aziende, con un saldo negativo rispetto alle nuove aperture (193.500) di quasi 26mila unità.
Una moria che continua e addirittura accelera nel 1° trimestre 2021 che rispetto allo stesso periodo del 2020 vede chiudere l’attività quasi 78mila piccole imprese (snc e individuali), con un saldo negativo tra aperture e chiusure in tre mesi di oltre 8mila aziende:
Va nello stesso senso il dato ISTAT sull’occupazione diffuso a fine aprile che segnala come, rispetto a febbraio 2020, ultimo mese prima della pandemia, gli occupati sono quasi 900 mila in meno e il tasso di occupazione è più basso di 2 punti percentuali. E la nota mensile di Aprile dell’ISTAT segnala un’ulteriore flessione del PIL rispetto ad aprile del 2020, che già era stato fortemente penalizzato dall’epidemia.
E’ di questi giorni il rapporto annuale della FIPE che segnala come nel solo comparto ristorazione, una filiera cruciale per i panificatori, in 14 mesi siano stati bruciati 514mila posti, il doppio dei posti di lavoro creati tra il 2013 e il 2019, e per oltre 6 ristoratori su 10 il calo di fatturato ha superato il 50% del volume d’affari dell’anno precedente.
Sono dati che spiegano e motivano fin troppo bene perché la maggioranza dei rinnovi di Contratti nazionali di lavoro siano bloccati, come messo in evidenza dal CNEL che nel suo report di febbraio segnala come a dicembre 2020, su un totale di 935 contratti complessivi, 587 ( il 62,8%) risultano scaduti e non rinnovati. E, ancora, solo 104 sono scaduti nel 2020, mentre i restanti 483 sono scaduti almeno dal 2019. Per completezza, la nota CNEL precisa anche che nel 2021 scadranno ulteriori 148 contratti. Dunque, a meno che non si registri qualche rinnovo in questi primi mesi dell’anno, ci si sta avvicinando pericolosamente ad una percentuale dell’80% di contratti non rinnovati.
Cifre inequivocabili, che indicano come lo strumento contrattuale, così come oggi è percepito, non corrisponde più alle realtà aziendali. Ciò che meraviglia è come i sindacati dei lavoratori si ostinino in modo testardo su posizioni che definire di retroguardia e superate è eufemistico, e non prendano atto della necessità inequivocabile di superare meccanismi e schemi contrattuali legati a situazioni superate dagli anni, e dalla realtà del mercato del lavoro.
Le incredibili richieste e proposte che, a partire dalle segreterie confederali (continuare con il blocco dei licenziamenti) per finire ai rappresentanti sindacali presenti sul nostro tavolo di rinnovo (“troviamo soluzioni politiche”) dimostrano un’ottusità e una lontananza totale dai cambiamenti economici e sociali, anche traumatici, che stanno avvenendo a tutti i livelli.
Ma, se in generale, l’ostinazione e il rifiuto al cambiamento da parte del mondo confederale sindacale sembrano essere granitici, anche in quel contesto di asserite certezze si intravvedono le prime crepe, forse timidi segnali di consapevolezza e accettazione che si tratta di una situazione di fatto superata dai tempi: vanno in tal senso, ad esempio le dichiarazioni di UILATRASPORTI ai microfoni di Radio 24ore, in occasione della chiusura del contratto, ha sottolineato come sia necessario, nel prossimo futuro intervenire sulla struttura contrattuale. Dichiarazione che trova conferma nel comunicato stampa sindacale nel quale si evidenzia la necessità di “operare per la riforma del Ccnl e realizzare gli interventi necessari alla sua modernizzazione” .
Si tratta di un primo – anche se timido- segnale che finalmente il sindacato si rende conto della necessità di voltare pagina?
Non è certo un caso che provenga da un settore, quello dei trasporti e logistica, che ha toccato con mano l’impatto devastante che ha avuto lo sviluppo di nuove tipologie di servizio e lavoro (triplicate le consegne per le vendite on-line, crescita enorme dei raiders ma anche, indirettamente, fenomeni come Uber nei servizi di trasporto urbano).
Una rivoluzione culturale ma anche strutturale destinata, presto o tardi, a coinvolgere tutti i settori e a travolgere quelli che continueranno ad ignorarla.
La storia delle rivoluzioni industriali insegna che lo sviluppo di nuove tecnologie ed i cambiamenti che ciò comporta non si può fermare, ma si può e si deve tentare di gestire e guidare.
Rifiutare il cambiamento significa essere espulsi dal mercato.
E vale sia per le imprese che per i lavoratori.