
Nel precedente post intitolato “LA TEMPESTA PERFETTA“ abbiamo cercato di analizzare il contesto economico generale e i suoi andamenti, per quanto sia possibile, prevedibili nel quale si trovano ad operare le nostre imprese. Abbiamo visto come l’inflazione e l’andamento dei costi energetici e delle materie prime stiano pesantemente condizionando le aziende di panificazione italiane e non solo.
Ma quale è invece la situazione relativamente al nostro mercato di riferimento? quali cambiamenti sono in atto e che cosa possiamo intravvedere quali possibili risposte da dare ai consumatori?
Per tentare di rispondere a questi cruciali interrogativi cerchamo in primo luogo dsi analizzare il contesto generale e gli orientamenti oggi in atto, partendo dai cambiamenti che a livello mondiale si stanno registrando nei consumi alimentari.
STILI ALIMENTARI : consumi sempre più orientati al mondo vegetale.
I panificatori si sono sempre considerati gli artigiani specializzati nell’arte bianca intendendo con questo termine sostanzialmente l’essere professionisti della lavorazione farina nelle sue molte versioni.
Forse oggi dovremmo prendere in considerazione un campo della nostra appartenenza più vasto e più rispondente alla realtà e alle richieste degli italiani, e non solo. Forse dovremmo considerare con maggiore attenzione le nuove realtà e i nuovi desiderata dei consumatori visti non solo come clienti del fornaio bensì come individui e soggetti che si confrontano quotidianamente con i temi ambientali, sociali ed economici. Cerchiamo di capire come stanno cambiando e di comprendere se e quale posto noi possiamo avere in questo nuovo scenario.

- il 67,7% degli italiani identifica la sostenibilità alimentare con il rispetto dell’ambiente: agricoltura e industria alimentare, quindi, risultano sostenibili se operano con criteri di tutela della natura e delle sue caratteristiche di biodiversità.
- Il 50,1% degli intervistati identifica la sostenibilità alimentare con la prevenzione degli sprechi e il 43,7% con packaging sostenibili, quindi alimenti non confezionati in imballaggi in plastica.
- Il 37,1% con prodotti a km0 e il 36,7% con la stagionalità della loro produzione e fruizione. Un terzo degli italiani, il 33,9%, dichiara che un alimento è sostenibile se la sua produzione è compatibile e rispettosa della biodiversità.
I CEREALI, VERI PROTAGONISTI DELL’ALIMENTAZIONE.
Nel novembre del 2021 la prestigiosa rivista NUTRITION REVIEW pubblica un lungo report intitolato: Cereali: una delle principali fonti di proteine sostenibili per la salute. L’articolo in questione apre con queste premesse :
“I cereali sono la principale fonte alimentare di energia, carboidrati e proteine vegetali in tutto il mondo. Attualmente, solo il 41% dei cereali viene utilizzato per il consumo umano e fino al 35% viene utilizzato per l’alimentazione animale. I cereali sono stati trascurati come fonte di proteine vegetali salutari e sostenibili dal punto di vista ambientale e potrebbero svolgere un ruolo importante nella transizione verso un sistema alimentare più sostenibile per diete sane. Le proteine vegetali dei cereali sono di buona qualità nutrizionale, ma la lisina è spesso l’aminoacido limitante. Se consumati come cereali integrali, i cereali forniscono componenti che proteggono la salute come fibre alimentari e sostanze fitochimiche.
Spostare l’uso dei cereali dai mangimi ai cibi tradizionali e cibi e ingredienti concettualmente nuovi potrebbe migliorare la sicurezza delle proteine e alleviare il cambiamento climatico.“
Il grafico dimostra chiaramente quale sia la situazione attuale di produzione e consumo. Ciò che è più interessante e che il report mette chiaramente in luce è come lo sviluppo di nuovi ingredienti alimentari a base di cereali e l’uso dei cereali in nuovi contesti alimentari, come sostituti del latte e analoghi della carne, potrebbero accelerare la transizione ambientale.
Infatti, i dati del report indicano anche come per ottenere 100 gr di proteine dal frumento basti uno spazio di poco più di 3 metri quadri e 370 litri d’acqua. Mentre, nel caso della carne bovina, per avere 100 gr di proteine servono ben 164 metri quadri di terreno e 728 litri d’acqua.
Certamente le proteine dei cereali ( Il contenuto proteico dei chicchi di cereali varia tra il 7% e il 18% della sostanza secca ), a seconda della specie e della varietà sono diverse rispetto a quelle presenti nelle carni: ma sono facilmente rintracciabili nei legumi e nella soia, elemento base per la preparazione di quella che oggi viene chiamata “carne vegetale” già fortemente presente su molti mercati e in particolare su quello americano.
Ma, oltre alla questione della sostenibilità ambientale, si evidenzia anche il forte impatto che un’elevata assunzione di proteine animali genera in termini di aumento della mortalità per cause cardiovascolari, mentre un’elevata assunzione di proteine vegetali genera un effetto benefico esattamente inverso.
Il report di NUTRITION REVIEW evidenzia anche come gli alimenti a base di cereali siano la più grande fonte di proteine vegetali a livello globale, fornendo in media più proteine nella dieta rispetto a quelle fornite dai prodotti a base di carne in Africa, America Centrale, Asia ed Europa e come le fasi di lavorazione degli alimenti come la cottura al forno, la cottura, l’estrusione e il soffiaggio offrono il potenziale per migliorare il contenuto e la biodisponibilità delle sostanze fitochimiche.
Infine, il report mette in luce quali siano o possano diventarlo gli USI ATTUALI E POTENZIALI DEI CEREALI NELLE ALTERNATIVE ALLA CARNE E AI LATTICINI sottolineando come sul mercato siano ora disponibili un numero crescente di alternative vegetali alla carne e ai latticini e l’interesse e la domanda per questi tipi di prodotti sono in aumento in molti paesi. Si prevede che il tasso di crescita annuale composto (CAGR) per le alternative alla carne sarà del 12% tra il 2019 e il 2026, mentre si prevede che le alternative lattiero-casearie abbiano un CAGR dell’11,4% tra il 2020 e il 2025. La soia è la coltura principale utilizzata per la produzione di carne e alternative ai latticini, ma stanno emergendo anche alternative a base di cereali. Negli ultimi anni, l’avena ha suscitato interesse in questo senso e il lancio di nuovi prodotti a base di avena si è esteso oltre gli alimenti a base di cereali a una categoria diversificata che comprende prodotti al cucchiaio, pasti pronti, gelati e persino cioccolato.
DUNQUE, SIAMO DESTINATI A DIVENTARE TUTTI VEGANI?
Sulla spinta di motivazioni ambientali, salutistiche e di rispetto per gli animali, dal 2018 ad oggi le vendite in Europa di prodotti alimentari a sola componente vegetale è cresciuto del 49% (fonte: nutraingredients.com).
Anche se in linea di principio, con motivazioni di carattere anche salutistico, gli stili alimentari si stanno orientando verso l’abbandono o comunque la marginalizzazione della carne, uno stile vegano non è immune da problemi. Uno di questi, come avvertono i ricercatori, riguarda la potenziale carenza di vitamina B12 tra i vegani. I ricercatori avvertono che una potenziale carenza di vitamina B12 tra vegani e vegetariani, quindi in un momento in cui le persone stanno adottando diete a base vegetale, potrebbe comportare rischi notevoli per la salute. E’ il caso, ad esempio delle diete simili a quelle proposte da Veganuary, che si definisce come “il più grande movimento vegano del mondo” , che invita le persone a provare un’alimentazione vegetale per tutto il mese di gennaio e, possibilmente, anche per tutto il resto dell’anno.
La dose di questa vitamina raccomandata dalle linee guida nutrizionali europee è di almeno 4 µg/giorno (4 microgrammi al giorno) per arrivare a 4,5 µg per le donne in gravidanza e 5 µg in allattamento.
Una deficienza significativa di vitamina B12 prolungata nel tempo può purtroppo comportare rischi concreti di anemia che si evidenziano con sintomi come affaticamento, mal di testa, affanno, perdita di appetito.
Purtroppo però la vitamina B12 che si ritrova quasi esclusivamente nelle carni e più specificatamente e in misura maggiore nel fegato di bovino( 65 µg /100 gr), molto meno nel coniglio e nello sgombro ( 10 µg /100 gr) ma anche, seppure in misura ancora minore, nel prosciutto crudo (5 µg/100 gr) e infine al latte fresco (0,6 µg) e al formaggio fresco (0,3 µg). Dunque, una dieta strettamente vegana potrebbe porre seri problemi di salute. E’ dunque necessario integrare una dieta vegana con un apporto esterno di vitamina B12, e una delle possibilità è quella di utilizzarla come ingrediente fortificante nei cibi a base vegetale.
Un discorso analogo potrebbe essere fatto relativamente alla vitamina D, la cui carenza è praticamente endemica: “In Italia l’80% della popolazione è carente di Vitamina D e ciò determina importanti ricadute sulla diffusione delle malattie dell’osso e sulla mortalità. La sua assunzione rimane quindi fondamentale per contrastare l’insufficienza diffusa e trasversale della “vitamina del sole”, che in Italia è allo stesso livello da 20 anni” (fonte: SIOMMMS.it)
“Tutti gli studi confermano che gran parte della popolazione italiana è affetta da Ipovitaminosi D” spiega il Presidente della SIOMMS Giancarlo Isaia. Ma purtroppo, ance questa vitamina è praticamente assente nei cereali e nei legumi.
MEGLIO GLI INTEGRATORI O GLI ALIMENTI FORTIFICATI ?
Già, ma cosa si intende per alimenti fortificati? la risposta la dà Minisalute sul proprio sito EPICENTRO:
” La fortificazione è il processo attraverso il quale un nutriente e più generalmente un micronutriente, come una vitamina, un minerale o altri composti che hanno un effetto benefico sulla salute (per esempio: acidi grassi essenziali, fibra), vengono aggiunti a un prodotto alimentare per migliorarne la qualità nutrizionale e per aumentarne i livelli di assunzione nella popolazione.“
Dunque, laddove vi siano carenze nutrizionali (ad esempio vitaminiche), una tecnica alternativa all’assunzione separata è quella di veicolarle attraverso alimenti di utilizzo comune e possibilmente giornaliero. Viene già fatto comunemente con lo yogurt da bere fortificato con vitamina D che secondo alcuni studi potrebbe migliorare il controllo della glicemia nei diabetici.
Ma anche i cereali, e in particolar modo la farina, potrebbe essere utilizzata quale veicolo di trasporto di micronutrienti e vitamine: uno studio pubblicato nel 2010 sulla rivista Food Nutrition Bullettin indica che, “seppure le evidenze siano ancora limitate, mostra che la farina fortificata, consumata come pane, può migliorare lo stato della vitamina B12. Laddove viene implementata la fortificazione della vitamina B12, la raccomandazione è di aggiungere 20 microg/kg di farina, assumendo un consumo compreso tra 75 e 100 g di farina al giorno, per fornire dal 75% al 100% del fabbisogno medio stimato“.
E, per quanto riguarda l‘apporto di vitamina D, va ricordato come già qualche anno fa sia stato sviluppato un lievito da panificazione che aumenta significativamente il contenuto in vitamina D nel pane. Eccone la descrizione :
Il lievito di birra può produrre naturalmente vitamina D se esposto alla luce ultravioletta del sole, in modo simile all’uomo. Lallemand ha sviluppato un processo che tratta il lievito con la luce UVB per produrre una fonte naturale e vegetariana di lievito di vitamina D che può essere utilizzato nel pane, nei prodotti da forno e in altri prodotti alimentari. (fonte:Lallemand).
CEREALI, PANE E PRODOTTI DA FORNO : QUALI POSSIBILI PROSPETTIVE?
In questo lungo post abbiamo cercato di descrivere quale sia la situazione attuale relativamente ai cambiamenti in atto negli stili di vita e particolarmente in quelli del consumo alimentare, tentando di individuare quali possibilità possono avere i panificatori di percorrere nuove strade senza per questo perdere la propria identità professionale che li identifica e li distingue in modo determinante nel mondo sia della produzione alimentare, oramai largamente dominata dall’industria, che della distribuzione.
Vi sono certamente almeno due possibili campi di sviluppo produttivo : la formulazione di prodotti di panificazione integrati da legumi o più in generale da materie prime di origine vegetale che corrisponderebbero alle tendenze in atto nelle scelte dei consumatori rispettando un minor consumo di prodotti a base di carne (abbiamo visto che i risvolti non sono solo salutistici ma anche di sensibilità ambientale, di consumo di acque e suolo, di inquinamento). In altre parole, in linea con quella che più in generale si identifica come transizione ecologica.
Ma anche ECONOMIA CIRCOLARE, un campo ancora troppo poco esplorato nel nostro settore. Va certamente nel senso della transizione ecologica la riscoperta di quell’economia circolare di cui oggi molto si parla ma che era ovvia e scontata per le passate generazioni: Il riutilizzo, il “non si butta mai via nulla” erano parti fondamentali della vita degli italiani fino al primo dopoguerra quando il benessere ha fatto scoprire un consumismo fin troppo sfrenato in cui il vecchio si butta anche se potrebbe essere ancora buono o riutilizzabile. Parliamo sempre di pane fresco ma troppo poco di pane vecchio, una risorsa che non si può destinare soltanto agli animali o alla Caritas, (per quanto siano sempre da lodare le iniziative a scopo benefico). Ma che va riutilizzata.
Parliamo ancora troppo poco del possibile utilizzo in panificazione, di quelli che potrebbero essere sottoprodotti di altre lavorazioni: ad esempio l’utilizzo del pane vecchio per fare birra ma anche il luppolo che residua dalla produzione della birra ma anche cose nuove, inaspettate: si veda ad esempio quello che ha fatto un ristoratore friulano utilizzando la parte edibile della corteccia degli alberi che erano stati abbattuti nel 2018 dalla tempesta Vaia, che ha provocato una strage incredibile sui monti e nelle vallate dolomitiche e della Carnia. Una follia? forse, ma intanto qualcuno non è rimasto fermo, ci ha provato. Ma quante altre cose si possono fare?
PANE COME VEICOLO DI SALUTE
E, infine, la fortificazione come veicolo di integrazione e supporto alla salute ma anche risposta concreta alle carenze nutrizionali di quella parte, sempre crescente, della popolazione che sceglie un profilo alimentare vegano e, inoltre, potrebbe essere mirata anche a specifiche esigenze legate all’età o a particolari condizioni delle persone, potrebbe costituire un potente supporto alle politiche di welfare ma più specificatamente di prevenzione. E non vi è dubbio che il nostro pane, proprio perchè di consumo quotidiano, potrebbe essere o diventare un formidabile veicolo di salute per i consumatori.
Riflettiamo bene: ci siamo preoccupati e dati da fare forse anche troppo sui prodotti senza glutine considerandoli quasi indispensabili anche se destinati perlomeno in origine, ad una nicchia specifica di potenziali consumatori, i celiaci. Un fenomeno che è certamente divenuto moda diffusa ma che, proprio perchè moda, non è detto sia destinato a durare e a crescere all’infinito. Ebbene, è stato calcolato che nella popolazione italiana il numero teorico di celiaci si aggiri intorno ai 600.000, contro gli oltre 225.000 ad oggi diagnosticati (fonte: Minisalute, EPICENTRO ), quindi poco più dell’1%, mentre l’ 8,2%, ovvero poco meno di una persona su dieci, in Italia, è vegana o vegetariana (fonte: EURISPES, rapporto Italia 2021).
Sono un esempio di fortificazione volontaria i cereali da prima colazione, ma disponibili sul mercato ci sono una grande varietà di prodotti. Ed è tempo di pensare anche al pane prima che ci pensi qualcun altro a livello industriale, proprio come hanno fatto, ad esempio, i produttori di cereali.
Abbiamo analizzato tre possibili vie che la panificazione artigianale potrebbe avere davanti. Anche se probabilmente potrebbero essere molte altre soluzioni e possibili innovazioni, qui abbiamo tentato di suggerire e delineare quelle che ci sembrano essere più orientate ai cambiamenti dei consumatori e che, nello stesso tempo, siano rispettose della nostra professionalità e dell’identità culturale della panificazione italiana, senza stravolgerla e basandosi essenzialmente su elementi che ne siano già ora parte integrante.
Non si tratta di innovazioni semplici da potersi attuare da un giorno all’altro, e soprattutto si tratta di soluzioni che hanno certamente bisogno di una preparazione anche tecnologica che non è certamente propria di un panificatore artigianale, per bravo che esso sia.
C’è la necessità di competenze esterne che dovrebbero essere messe a disposizione della categoria, sviluppi progettuali che sono propri di enti quali ad esempio le molte facoltà di scienze e tecnologie alimentari che in Italia non mancano sia al nord che al centro che al sud e che finora sono state praticamente ad esclusivo appannaggio dei grandi nomi dell’alimentare, allargando sempre più la forbice di competenze e di innovazione tra microimpresa e imprese industriali. Un gap micidiale che se non viene perlomeno ridotto ridurrà la panificazione artigianale ad un’attività di nicchia.
C’è bisogno di un progetto complessivo, un coordinamento che consenta la diffusione dei possibili risultati sul territorio e nelle singole imprese.
C’è bisogno, insomma, di una Federazione che accetti questa sfida, che metta in moto tutto questo, lo coordini, lo sostenga e crei i presupposti dei quali le nostre aziende hanno sempre più urgentemente bisogno.
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Questo è il secondo di una serie di post dedicati ad un'analisi del contesto nel quale operano oggi le imprese della panificazione italiana. Il primo, dedicato a inflazione, materie prime ed energia, è reperibile QUI