
“Voglio trovare un senso a questa situazione,
Anche se questa situazione un senso non ce l’ha”
Così cantava Vasco Rossi. Correva l’anno 2004.
E oggi più che mai non si può che essere d’accordo con queste sue parole.
Perché ciò che sta accadendo nel mondo delle relazioni sindacali ha qualche cosa di paradossale, se si considera la devastazione sanitaria ma anche economica che l’epidemia in corso – e tutt’altro che vicina a concludersi – sta causando non solo nel nostro Paese ma a livello mondiale.
Vale la pena di ricordare come già nel 2019, e ben prima che il coronavirus sconvolgesse la nostra vita, la stagnazione dell’economia italiana costituiva l’elemento principale di discussione e confronto/scontro sia a livello nazionale che europeo, con fosche prospettive di chiusura delle aziende e il rischio di importanti perdite di posti di lavoro; e, dunque, un’economia già malata e seriamente sofferente come la nostra (peggio di noi solo la Grecia), si è trovata, improvvisamente a dover fare anche i conti con un’epidemia del tutto imprevista e alla quale non era assolutamente preparato né il sistema sanitario né tantomeno il sistema politico ed economico che già era messo molto male di suo.
Ma se per noi era evidente come la situazione di molte nostre aziende ante-covid fosse già di per sé preoccupante, le organizzazioni dei lavoratori, anziché discutere su come metterle in sicurezza e tutelare i posti di lavoro, presentavano una piattaforma di rinnovo contrattuale che, fin dalle premesse, evocava un mondo onirico, direi quasi ideale e del tutto irreale. Su tali premesse avevano elaborato una serie di richieste – compresa quella di un aumento di 98 euro mensili netti in busta (hanno evidentemente imparato dalla GDO che è sempre meglio stare sotto il prezzo tondo, chiedere 100 pare brutto…) che, se concessi, avrebbero ovviamente determinato aumenti di costo del lavoro del tutto insostenibili, costringendo le nostre imprese ad aumentare i prezzi in una situazione di mercato già stagnante di suo e, in ultima analisi, mettendo seriamente a rischio aziende e posti di lavoro.
Se prima del coronavirus il tratto dominante della nostra economia era già caratterizzato da stagnazione e recessione dei consumi interni, l’esplodere improvviso dell’epidemia ha destabilizzato definitivamente non solo il già precario equilibrio economico delle imprese ma anche gli assetti sociali del Paese, facendo precipitare centinaia di migliaia di famiglie italiane ben al di sotto del loro abituale tenore di vita che si credeva consolidato.
Stando agli ultimi dati del CENSIS, 5 milioni di italiani fanno fatica ad assicurarsi un pasto decente; il tenore di vita è peggiorato per 7,6 milioni e il 60% delle persone ritiene che sia possibile nel prossimo anno perdere il lavoro o il reddito sui quali finora potevano contare.
Del resto, già a luglio le stime dell’Employment Outlook dell’OCSE erano terrificanti : sempre che l’epidemia rimanga sotto controllo, entro la fine del 2020 i posti di lavoro persi potrebbero essere circa 1,15 milioni: ma una seconda ondata di contagi, cosa che stiamo tutti vivendo, potrebbe portare la perdita a quasi 1 milione e mezzo di posizioni lavorative.
In questa situazione, la tenuta del cosiddetto partenariato sociale – ovvero le relazioni imprese sindacati dei lavoratori – è stato messa a dura prova, compressa tra una pandemia e una recessione ben oltre quella programmata e tale che ancor oggi nessuno è ragionevolmente in grado di stimare realisticamente.
Per uscire prima possibile da questa tremenda situazione sarebbe logico aspettarsi che tra rappresentanze delle imprese e quelle dei lavoratori si trovino elementi comuni anche con caratteristiche di eccezionalità, tali da saper superare da ambo le parti liturgie e dichiarazioni di principio che almeno dal dopoguerra ad oggi rappresentano lo stancante leit-motiv di ogni trattativa contrattuale. In altri termini, sarebbe stato legittimo aspettarsi che mentre le aziende sono immerse in un’incertezza senza precedenti sul proprio futuro, le organizzazioni per la difesa dei lavoratori avrebbero saputo aprirsi e posizionarsi primariamente in una posizione di equilibrio che contempli il mantenimento delle attività economiche (e, conseguentemente, la salvaguardia dei posti di lavoro), e nello stesso tempo la salute degli addetti.
E invece, In questo quadro terrificante, i sindacati dei lavoratori non trovano di meglio che far ripartire la conflittualità in tutti i settori, arrivando perfino a dichiarare lo sciopero nel comparto del pubblico impiego che è senza dubbio quello che meno ha risentito del COVID (sanità esclusa, ovviamente) e nel quale, a differenza di ciò che accade nelle imprese, nessun posto di lavoro è messo a rischio.
In una situazione di questo tipo sarebbe sensato aspettarsi, se non un tavolo comune di analisi e confronto aziende-sindacati per individuare azioni straordinarie da mettere in campo per affrontare questa terribile crisi, perlomeno una sorta di tregua sindacale che consenta di ragionare assieme lucidamente per uscirne con meno danni possibili. Ma così non è, visto che le confederazioni dei lavoratori appaiono ancora una volta e più che mai ripiegate sulla solita linea dei diritti e delle aspettative con scioperi e prove di forza che in una emergenza come quella attuale risultano essere del tutto illogiche e incomprensibili.
In un’Italia devastata da un debito pubblico stratosferico che prima o poi tutti dovremo pagare pesantemente, mentre le imprese falliscono e saltano migliaia di posti di lavoro (o salteranno appena finita la moratoria sui licenziamenti…), il pubblico impiego a posto garantito sciopera perché non gli si concedono aumenti. E lo fa scioperando il 9 dicembre, a conclusione di un probabile ponte di 4 giorni che così diventerebbero cinque….
Uno sciopero che segue quello dichiarato e fatto in ottobre nella metalmeccanica nonostante in questi mesi le aziende abbiano registrato in due mesi all’incirca il 90% di sospensioni di attività mentre gli installatori e costruttori di impianti non hanno dovuto chiudere ma hanno registrato cali di fatturato in media del 30%. Ma, nonostante questi dati terrificanti, dopo il blocco delle flessibilità e degli straordinari, è stato comunque sciopero poiché secondo i sindacati non si capisce “come si faccia fatica a ragionare con una classe imprenditoriale che sembra spesso non avere una visione generale del futuro e del bene comune”.
E, intanto continuano le pressioni sul comparto industriale alimentare (anche qui con proclamazione di scioperi) perché le imprese del settore aderiscano, pur, a volte, “obtorto collo”, ad accordi che solo alcune (vedi Barilla) hanno sottoscritto sulla base di proprie valutazioni e motivazioni.
E’ dunque in un quadro di questo tipo che all’inizio di novembre i rappresentanti di FLAI CGIL, FAI CISL e UILA UIL hanno chiesto di incontrare la Federazione facendo intendere, nella sostanza, di voler riprendere il cammino interrotto della trattativa di rinnovo contrattuale. Ma nessun cenno, in quella richiesta, a riconsiderare la drammatica situazione che tutti stiamo vivendo, nessun riferimento alla necessità di uno sforzo unitario comune mettendo da parte rivendicazioni che se già avevano poco senso in passato, oggi appaiono del tutto inadatte a superare la tremenda crisi che stiamo vivendo e che nei prossimi mesi porterà centinaia se non migliaia di imprese alla chiusura.
Non sarà certo questa Federazione a rifiutare gli incontri: non lo ha mai fatto in passato né tantomeno lo farà oggi, ora che più che mai c’è bisogno di dialogo e non di scontro. Ma dovrà essere fatto su basi nuove e diverse, che consentano, dopo una seria ed attenta valutazione di ciò che sta avvenendo, di creare le basi per un nuovo modello contrattuale che sia rispondente e rispettoso dei diritti e dei doveri di imprese e lavoratori. Ecco perché, parafrasando Vasco Rossi, è legittimo e doveroso voler trovare un senso a una situazione che oggi ci appare insensata e irreale. Da parte nostra siamo disponibili e pronti, con la speranza che da parte delle organizzazioni dei lavoratori lo siano altrettanto nonostante le risposte che fin qui ci siamo sentiti dare quasi che il loro mondo non fosse il nostro e quello dei nostri collaboratori.
Negli anni ’50 fece furori un film di Elia Kazan, protagonista un giovane Marlon Brando “un treno chiamato desiderio”. Siamo nel 2020, Elia Kazan e Marlon Brando sono morti da un pezzo e se qualcuno è salito su quel tram è bene che scenda, e lo faccia alla svelta, anche perché il tram sta arrivando al capolinea e siamo, oramai, ai titoli di coda.