SALARIO MINIMO E CONTRATTO DI LAVORO: È TEMPO DI CAMBIARE.

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Negli ultimi mesi si fa un gran parlare di salario minimo, ed è noto che le posizioni su questo tema sono estremamente divergenti sia relativamente alla sua introduzione che sul valore che tale salario dovrebbe assumere.  Il tema è stato portato al centro del dibattito da una proposta di Direttiva da parte della Commissione Europea al Parlamento UE presentata il  28.10.2020 COM(2020) 682 . La motivazione del provvedimento si può efficacemente ritrovare nella dichiarazione del 2020 della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen che ha dichiarato: “La verità è che per troppe persone il lavoro non è più remunerativo: il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l’imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale nel mercato unico”. Dunque, non solo salari dignitosi ma anche evitare per quanto possibile una concorrenza sleale tra aziende che pagano in modo equo i propri dipendenti ed altre che non si comportano altrettanto correttamente.

Ma cosa si intende esattamente per “salario Minimo”? la proposta di direttiva lo definisce come “ la retribuzione minima che un datore di lavoro è tenuto a versare ai lavoratori per il lavoro svolto in un dato periodo, calcolato sulla base del tempo o dei risultati prodotti”. In concreto, l’importo del salario minimo è definito come “il trattamento economico complessivo comprensivo del trattamento minimo tabellare, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa “.

Sulla base di queste indicazioni, per quanto attiene il nostro attuale CCNL, il valore medio orario risulta essere superiore ai 10 euro/ora, arrivando a oltre 12 € per le qualifiche più alte e di poco inferiore ai 9 € per le più basse (A4, B3 e B4).

Ma, tornando alla proposta della Commissione Europea, la stessa si preoccupa di definire l’adeguatezza del valore salario minimo. Secondo la proposta di direttiva, i criteri nazionali da prendere in considerazione devono comprendere almeno i seguenti elementi:

  1. a) il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita e dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali;
  2. b) il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione;
  3. c) il tasso di crescita dei salari lordi;
  4. d) l’andamento della produttività del lavoro.

Ciò che qui interessa maggiormente rilevare è che la proposta comunitaria mette in primo piano la necessità che ogni Nazione, nello stabilire il valore minimo del salario, tenga da conto non solo il livello generale dei salari lordi ma anche il loro potere d’acquisto, il costo della vita nonché l’andamento della produttività del lavoro.

Ora, nell’acceso dibattito parlamentare di questi giorni, si fa un gran parlare del valore soglia da prefissare (l’ultima proposta di legge presentata unitariamente dai partiti dell’opposizione con l’eccezione di Italia Viva prevede un valore minimo retributivo pari a 9 euro all’ora). La prima questione da chiarire è quali voci sono ricomprese nel valore che dovrebbe venire prefissato quale soglia minima.  Se i 9 Euro di cui si parla fossero  onnicomprensivi, e quindi lordi, corrisponderebbero all’incirca a 7,50 € lordi. Se viceversa fossero netti, corrisponderebbero ad un valore cosiddetto mediano del 75% mentre tutte le indicazioni internazionali (ed europee) fissano come valore massimo mediano il 60%. Ne deriverebbe un costo del lavoro talmente alto da mettere seriamente a rischio le imprese italiane.

Ciò che però più ci meraviglia è il fatto che negli infiniti dibattiti parlamentari non si parla mai o quasi mai dei parametri indicati dalla Commissione ed in particolare della necessità di legare il salario minimo al costo della vita e alla produttività del lavoro prestato.

Eppure un richiamo forte alla necessità di parametrare gli stipendi al costo della vita, particolarmente in un paese con aree economiche così diversificate, è stato da tempo sollevato da economisti e giuslavoristi che non possono certamente essere tacciati di posizioni preconcette: vale la pena, ad esempio, di ricordare quanto dichiarato dal giuslavorista  Pietro Ichino in un’intervista a Quotidiano Economia a proposito della proposta dei 9 euro:  La proposta va nella direzione giusta; ma rischia di fissare uno standard troppo basso per Milano e Torino, troppo alto per Reggio Calabria e Caltanissetta. Con il rischio di ampliare lo spazio del lavoro nero al Sud e, paradossalmente, di avere un effetto depressivo sulle dinamiche retributive al Nord, dove vi sono le condizioni anche per standard orari minimi più alti. Nella stessa intervista, Ichino auspica che l’ISTAT possa pubblicare un indice del potere d’acquisto per province o per regioni che consenta di valutare in modo flessibile il valore delle retribuzioni. Tema che, peraltro, aveva già sottolineato nel 2021 in un’intervista all’Huffington Post nella quale a quel tempo indicava come Il valore medio potrebbe essere fissato fra i sei e i sette euro, da moltiplicare per un coefficiente che vada da 0,8 a 1,2 in corrispondenza con le variazioni regionali del costo della vita.

Perché ne parliamo? perché quando, fin dal 2015, nel corso delle trattative per il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro, questa Federazione aveva sottolineato alle controparti sindacali la necessità di legare parte della retribuzione ai parametri economici del territorio, e, quindi, ma non solo, al costo della vita che varia da Regione a Regione se non da Provincia a Provincia. Per chi voglia approfondire la questione, il documento è disponibile sul sito della Federazione) che, è noto, in Italia diverge fortemente da regione a regione per non dire da Provincia a provincia, era stata accusata di volere la reintroduzione delle cosiddette gabbie salariali. E, proprio a questo proposito sentiamo ancora una volta il parere di Pietro Ichino: “È vero proprio il contrario: le “gabbie salariali“ irrigidivano i minimi retributivi in schemi fissi e immutabili, cristallizzando le disparità fra le regioni. Qui invece si tratterebbe di “sgabbiare“ la contrattazione, consentendole di adattare lo standard retributivo in modo intelligente, flessibile, adatto alle circostanze effettive mutevoli nel tempo”.

E quanto sia differenziato per prodotto interno lordo e costo della vita il territorio italiano lo si vede chiaramente dalla cartina che raffigura come il prodotto interno lordo italiano differisca da Regione a Regione :

Dunque, ancora una volta bisogna ripartire dal territorio: comprenderne le caratteristiche, le capacità economiche, la possibilità di rilancio e di crescita ed avere il coraggio di rinunciare a quelle “certezze nazionali” che sono certamente indispensabili a delineare un quadro generale normativo e contrattuale coeso ed uniforme ma che, allo stesso tempo, sappiano rispondere alla realtà del territorio in termini di ricchezza economica e di costo della vita.

Fin qui la risposta delle organizzazioni dei lavoratori, aggrappate come sono ai vecchi schemi contrattuali delineati nel dopoguerra e che, fino ad oggi, anche se si sono probabilmente evoluti in termini di diritti dei lavoratori rimangono però incapaci di recepire i cambiamenti reali della struttura economica e sociale del Paese e in particolare del territorio.

L’insistenza sulla contrattazione di secondo livello così come parte prevista dalla tradizionale contrattazione nazionale, intesa come  distinta, separata e aggiuntiva al CCNL  e non parte di un corpus retributivo unico che tenga concretamente conto della realtà economica del territorio appare motivata più dalla necessità di soddisfare gli appetiti contrattuali delle strutture territoriali che non da quella, ben più concreta e necessaria, di riconoscere le diversità economiche e sociali che caratterizzano e distinguono una dall’altra le nostre Regioni.

Che la struttura contrattuale (e non solo la nostra, ovviamente) sia da ripensare profondamente lo diciamo da dieci anni. Oggi sempre più voci autorevoli si levano richiamando la necessità di ridefinire un quadro di rapporti sindacali che sia aderente alle trasformazioni che il tessuto sociale e quello produttivo sta vivendo. Se si vogliono salvaguardare aziende e posti di lavoro, la via non può essere sempre e solo quella di tenersi stretti al passato, bensì quella di avere il coraggio di cambiare passo. Noi siamo pronti a farlo, e vogliamo farlo in fretta.