
Se qualcuno pensava che la pandemia avrebbe cambiato le cose e reso tutti più concreti, consapevoli e responsabili ebbene, si legga il corsivo di Massimo Gramellini intitolato “LA MAESTRA E IL SINDACALISTA” , (per piacere leggetelo, potete farlo da qui) pubblicato sabato dal Corriere della Sera e si renderà conto che, caschi il mondo, ci sono cose che comunque non cambiano mai.

Non commento il fatto, ma noto un curioso parallelismo tra questo – almeno per me – incredibile episodio e quanto da anni andiamo dicendo sul tavolo del contratto di lavoro. A suo tempo l’abbiamo chiamata “valorizzazione della performance individuale”, ovvero la necessità di tenere conto, contrattualmente, della differenza enorme che c’è tra chi si impegna a fondo affinchè le cose vadano bene e chi si limita a fare il “minimo sindacale” indispensabile per tirare paga a fine mese. Insomma, come dovrebbe avvenire nel caso della maestra di Prato, la necessità di valorizzare chi si impegna rispetto a chi in azienda tira a campare.
E se il coronavirus ha dimostrato una cosa è che senza l’impegno e l’abnegazione dei singoli non si va da nessuna parte. Certo, parliamo di medici, infermieri, volontari che per qualche mese sono stati trattati da eroi ma che, temo, saranno presto dimenticati fino a quando non ci sarà di nuovo bisogno di loro. Ciò che tutto questo ci insegna è che senza impegno ed abnegazione individuali non si va da nessuna parte ma dall’episodio di Prato sembra di capire che non è bastata questa durissima lezione a farci comprendere una verità tanto semplice quanto, probabilmente anche scomoda: proteggere e difendere sempre tutti, indistintamente da quanto e come si danno da fare è una filosofia che non dovrebbe più trovare spazio, e tanto più dovrebbe essere lasciata da parte da chi ha quale proprio compito istituzionale difendere i diritti dei lavoratori. Perché se la parola” diritto” è sacrosanta, lo è altrettanto la parola “dovere”. E fare il proprio dovere non è fare il minimo indispensabile ma lavorare al meglio, che si sia un infermiere, una commessa o un fornaio. No, avere tutti gli stessi diritti non significa essere tutti uguali.
Quelli della mia generazione probabilmente ricordano bene le vicende del 6 politico, quando in nome di una sbagliata e retorica uguaglianza si voleva rendere obbligatorio promuovere nelle scuole indistintamente dal loro impegno e capacità tutti quanti. E solo dopo si è capito come quella falsa uguaglianza avesse tolto proprio a chi più si sacrificava per poter studiare e lavorare per costruirsi un futuro migliore l’unico strumento di valorizzazione e distinzione rispetto a chi, pigramente, rivendicava pur senza merito di essere egualmente promosso.
Diceva un vecchio presidente federale: “c’è chi vuole il lavoro e chi vuole il posto di lavoro”. Differenza sottile, ma fondamentale, soprattutto oggi, per le nostre imprese.
Passata la fase più acuta della pandemia stiamo lentamente ritornando ad una parvenza di normalità e, prima o poi, riprenderemo anche il confronto con le organizzazioni dei lavoratori per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro. L’auspicio è che si torni al confronto con un altro spirito, nuovo, scevro da pregiudizi e pregiudiziali, consapevoli tutti che l’economia del Paese è sull’orlo del disastro e che è finito il tempo dei veti e soprattutto quello delle rendite di posizione. E che episodi come quello di Prato sono solo ultimi residui di una cultura che non ha più senso né più alcun diritto di cittadinanza in una società che se vuole guardare serenamente avanti deve trovare nelle relazioni sociali modelli totalmente nuovi e diversi dal passato.